lunedì 13 aprile 2015

Ristorante Olivo

Ristorante Olivo CubaSerata pigra. In frigo ci sono poche cose e nessuno ha pensato alla cena. Si tratterebbe di scaldare qualche vecchia pizza messa a congelare come una mutanda ripiegata su se stessa. I soliti buoni propositi: "Dobbiamo programmare. Programmare. È chiaro? Non possiamo arrivare alle otto e aprire il frigo per vedere che c'è...". No, infatti. Taccio sul fatto che sono 48 anni che va avanti così: mutande ripiegate, attacchi al sacchetto della farina per assorbire carboidrati, succhiare würstel congelati come fossero un calippo, frutta compulsiva e acida scansando gli insetti che ci hanno trovato casa. Bene. Sono giorni che passo davanti ad un cartello in calle 20. Il cartello promette bene: Olivo. Mi tornano su, come i würstel congelati, immagini di Romano Prodi che sventola una bandiera e sembra un idiota al circo. Poi, negli anni, si è rivelato un idiota al circo, ma questa è un'altra storia. Ok, andiamo.
Conosco il posto. Fino a poco tempo fa c'era il ristorante italiano Tres Medallas di proprietà di una campionessa olimpica di cui non ricordo il nome. Poi ha chiuso. Oggi ci avviciniamo timidamente. Chiediamo un menu per vedere se non ci arriva una tortorata e lo soppesiamo. Forse una tortorata no ma una mezza pizza (schiaffone, per quelli nati fuori dal Raccordo Anulare), sì. Il ristorante è semivuoto. Diffidenza. Vecchi imperativi categorici che recitano: "Vai sempre nei ristoranti dove vedi tante macchine parcheggiate, meglio se camion. Lì si mangia bene e si spende poco", iniziano a mulinare nella testa come parole di Giovanni XXIII. Vabbè, ormai ci siamo. Menu interessante: almeno nelle intenzioni piatti diversi dai soliti. Cucina spagnola. Dettagli importanti. Ingredienti introvabili. Zafferano, per esempio. Chiedo un Gazpacho e una paella mista mentre Dalia prende un Gazpacho e una lasagna nella variante spagnola. Da bere Bucanero marmorizzata, ovviamente. Dopo un po' arriva un uomo. Di colore sui sessanta y algo. Stanco. Ci saluta. Si chiama Jose. Dà due ordini in cucina e poi torna da noi. Ci domanda se abbiamo ordinato e poi si siede. Si passa la mano sul viso e capisco fino all'ultima cellula la sua stanchezza. Si racconta. Per 18 anni chef in Spagna, soprattutto a Barcellona. Uomo colto. Cita scrittori, film, e poi sapori. Dice: "Un uomo non deve tendere ad un luogo che si trovi più in là della propria ombra", e questa frase mi lascia davanti ad un burrone inaspettato. Racconta del suo concetto di cucina, del suo concetto di buono. Non gli interessa mettere in piedi un ristorante solo per alzare quattrini. Certo, quelli servono e non nasconde di averne investiti parecchi qui. Gli interessa uscire dall'uniformità di sapori di L'Avana. Gli dico che sono molto d'accordo. Ci stiamo simpatici. In effetti le difficoltà di approvvigionamento della materia prima e l'obbligo di acquisto nei negozi comuni confina i sapori dei ristoranti all'interno di un range limitato. Mi racconta la sua stanchezza: si è alzato alle due del mattino la sera precedente per tentare di assicurarsi il filetto migliore in qualche tienda. Numeretti e fila, una roba del genere. Poi il filetto non è arrivato. Ha gli occhi stanchi. Sullo sfondo tristi, o no, spaventati. Ha paura di non farcela. Ha aperto da un mese e quasi si scusa per il ristorante semivuoto. Intanto ci servono il miglior Gazpacho di L'Avana. Chiacchieriamo. Si spazia tra opinioni sulla cucina italiana, su quella cubana, su quella cinese. Sa veramente il fatto suo. Ma, come al solito, è la persona che mi colpisce. Non lecca il culo. Lontano da quei proprietari suadenti che fanno gli amici e che ti armano una festicciola che sa di muffa. Lui ti parla della sua paura e delle sue certezze. Sa cucinare. Davvero. Quando arrivano la lasagna e la paella si scusa, si passa di nuovo una mano sulla faccia e ci saluta. Va a dormire. È stanco. Mangiamo la migliore paella e la migliore lasagna di L'Avana. Continuiamo a chiacchierare tra noi. Un trago di rum per finire e poi un conto abbastanza onesto. Prima di andare via mi viene in mente una frase di Zeman che adoro: "Il risultato è casuale, la prestazione no". Cerco di applicarla a quel ristorante, a quell'uomo. Spero col cuore che tutto gli vada bene. Un mese non è niente. L'avviamento di un ristorante è duro e pieno di incognite. Il successo, poi, dipende da fattori spesso incontrollabili. Quello è il risultato. La prestazione invece sta là. La lasciamo nei piatti vuoti e la commentiamo tornando a piedi verso casa. Eccellente. Come boe affondate tornano in superficie tutte quelle volte in cui ho vissuto quell'incertezza, quella paura, quell'investimento sul mondo. La prestazione migliore possibile e poi quell'attesa del risultato. Mi ripropongo di scriverne su questo blog. Ed eccomi qui. All'Olivo, in calle 20, tra calle 3 e 5 a Miramar si mangia in modo davvero unico. E c'è un buon sapore di umanità. Fidatevi.