lunedì 21 maggio 2018

Le immagini della tragedia



Dopo una tragedia come quella di venerdì scorso credo che l'unico atteggiamento decente da tenere sia quello del silenzio e del rispetto. Tutto il resto è orrendo, senza nessuna gradazione del disgusto. La morte è una brutta storia e in aereo, suppongo, deve essere ancora più mostruosa. Punto. Non mi interessa perciò parlare di responsabili, di colpe e cose così.
Esistono persone che lo fanno per lavoro, esistono giornalisti, pochi ma esistono, ed io sono fieramente un non-giornalista. Infatti non pensavo di scrivere nemmeno una riga su questo blog. Invece, poi, nei giorni successivi, hanno cominciato a girare qui all'Avana alcuni video amatoriali realizzati da persone accorse sul luogo dell'incidente. Li ho guardati. Alcuni solo panoramici e in essi si vedono immagini dei tronconi fumanti dell'aereo, gente che corre, che grida, poliziotti che cercano di fare ordine, facce spaventate. Altri video erano invece molto più difficili. Credo che certe immagini mi resteranno per sempre negli occhi. Inutile descriverli. La realtà muta non soltanto della morte ma di un incidente che sembra qualcosa di più della morte, un gioco sadico contro la dignità di chi sta perdendo la vita. Ho interrotto il video più assurdo prima che finisse. Ho respirato. Ho pensato alla guerra. A quegli stronzi che parlano di bilanci di guerra, di numeri, di nomignoli suggestivi affibbiati ad operazioni belliche e che si guardano bene dal mostrare le immagini reali degli effetti di quelle bombe intelligenti che sganciano, quelle che lette su un giornale, viste da lontano in una schermata di dati sembrano quasi simpatiche, dei mortaretti di capodanno. I corpi dilaniati sono una cosa mostruosa. Sono la fine della ragione. Sono l'inizio della follia. Sono questo mistero mostruoso che ci taciamo quotidianamente per non impazzire. L'inaccettabilità del dolore, della sofferenza, della morte. Proprio in quel momento avrei avuto bisogno delle parole più illuminate del Buddha. Com'era? Perché ci siamo? Cos'era l'essere? E il nulla? Le ho dimenticate. Sono corso a rileggerle a casa, leccandomi le mie di ferite, cercando di dare un senso a quelle immagini che mi bruciavano dentro, incandescenti. Il senso, già... Mi sono fermato a pensare ancora. C'era qualcosa di così evidente in quei filmati  che avevo lasciato passare, sovrastato com'ero da quei contenuti tanto violenti. Bene, era la gente: ogni ripresa sorprendeva decine di altre persone che col loro cellulare riprendevano quello che avevano di fronte. Ok, un fenomeno ormai universale. Questo istinto quasi automatico a registrare quello che attraversa la nostra vita. Da un lato c'è un istinto da reporter, ma non basta. Non basta quell'impulso interiore all'io-c'ero. C'è qualcosa di più. Me lo sono domandato. Cosa? Una risposta comincia proprio da quell'automatismo nella risposta, io credo. Succede qualcosa e noi automaticamente la registriamo. La cogliamo in quella che crediamo essere la realtà e la mettiamo a disposizione degli altri. Non raccontiamo più. Non interpretiamo. Non la trasferiamo più alla nostra comunità in altre parole. La diamo agli altri in quella terrificante versione unidimensionale, nella sua fisicità e nient'altro. Non c'è più un filtro religioso, né uno spirituale, né una bugia, né un racconto. Non ci fidiamo più dei nostri racconti. La morte non diventa più mito, ha smesso di essere lotta con gli dei, ha perso totalmente quella tessitura in cui abbiamo costruito la nostra storia di specie, di uomini, di semidei. Non ci fidiamo più. Stiamo costruendo questa nuova immagine di noi stessi conquistati dal meccanicismo e dalle macchine e questa immagine assurda di noi stessi prevede che esista veramente la realtà, che esistano oggetti, esseri separati, continuità. Ha smesso di risuonare in noi una frase come quella di Leopardi che oggi farebbe ridere i polli: niente si sa, tutto si immagina. No, siamo fatti sempre più di quella che chiamiamo realtà, non sappiamo sillabare altro, anche se alla fine non sappiamo che farcene di tutta questa realtà. Immagini da passare ad altri che le passeranno ad altri che le passeranno ad altri. Non abbiamo più chiavi interpretative di nessun tipo per farne una metafora, per dare pane buono, parole buone ai nostri figli ogni volta che toccano il vuoto. A pensarci bene sarebbe tutto fisiologico, forse sarebbe giustamente questo il nostro destino futuro se non fossimo ancora dei sognatori. Dico sognatori nel senso più materiale del termine: se non dormissimo ogni notte e sognassimo. Il sogno è una metafora, è un racconto, è un mito che ci raccontiamo ogni notte per non morire sotto il peso della mancanza di senso di tutto. È una favola che mette in fila eventi, li mette in prospettiva, li indirizza. Siamo ancora lì, che ci piaccia o no, con la necessità di costruire intorno all'assurdità della vita le nostre storie. Siano esse inverosimili traiettorie di divinità misericordiose, filosofie o idee di se stessi. È quando vedo immagini così terrificanti, quando vedo quel mondo sospeso davanti ad uno strapiombo della ragione come l'incidente aereo di venerdì che sento forte, ancora, in questa epoca, il primato della letteratura. Di fronte a questa orgia della materia, della tecnologia, di immagini, di pixel, di apparenza, la necessità vitale della sostanza, di quel racconto invisibile che ci tiene in vita. Non la sento io, la vedo implorante quella necessità negli occhi di tutti questi reporter che hanno perso la voce. Di quelli che registrano tutto incapaci di commentarlo quel tutto, incapaci di farne, faticosamente, un racconto pieno di cuore, pieno di bugie, pieno di eroi, pieno di amori, un regalo ad uso e consumo della propria comunità, perché la vita non faccia male, in poche parole un'opera d'arte.
Scritto di Alessandro Zarlatti

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