sabato 21 marzo 2020

Attendere, prego...


Parlavo ieri con Alessio, un amico che vive qui all'Avana da molti anni, e ci scambiavamo impressioni e paure sulla situazione. Cuba ha chiuso le frontiere ed era quello che doveva fare, ora non ci resta che attendere. Attendere. Questo soltanto dobbiamo fare adesso: aspettare. Mi diceva "perchè non scrivi qualcosa su questa attesa?", io gli rispondevo che ero parecchio scoglionato, che non ne avevo voglia. Stamattina continuo a non averla la voglia. Ma ci penso all'attesa.
È la dimensione in cui siamo calati tutti, ad ogni latitudine, e non siamo abituati, non ci piace, non mi piace. Carambolati in pochi giorni dall'allucinazione del prendere, dell'afferrare, dal sacrosanto diritto a fare del mondo il territorio della nostra volontà (e rappresentazione), alla posizione difficile del ricevere, del dipendere, della nostra sovranità sospesa e nelle mani degli altri. Gli altri. Quelli che non si lavano le mani. Quelli che non si mettono a due metri di distanza. Quelli che tossiscono. Quelli che non prendono provvedimenti. Quelli che se ne fregano. Gli altri. Noi stessi. Tutti ad aspettare. In questo sistema complesso che mostra tutta l'idiozia di una visione causa-effetto delle cose dell'esistenza. Quando tutto c'insegna che siamo rapporti circolari, interdipendenza. Nient'altro. Odio l'attesa. Il mio ego, quella specie di bossetto della camorra che ognuno di noi si è visto crescere dentro, quello che vede nelle regole, nell'idea di sistema, un attentato alla propria espressione, lotta da sempre contro le attese. Mantra inossidabili come "mai mettersi nelle mani degli altri", "mai imbavagliare quel Leonardo da Vinci che abbiamo dentro" ci attraversano in ogni momento, in ogni frangente, nel lavoro, nell'arte, nei rapporti, nell'amore. Il fastidio sempre rifuggito di essere nelle mani dell'altro, di ciò che non dipende da noi: da un governo, da una malattia, da una selezione. Il mio bossetto ha sempre odiato le file. Mia moglie è disperata quando faccio il giro della città per trovare il negozio senza code, i pagamenti del telefono la domenica pomeriggio, le spiagge adiacenti ad una marana per non trovare la gente, i rientri intelligenti all'alba. Finisce che compro il solito pacchetto di würstel del 1972, che mi immergo nelle cloache, che impicco intere giornate di sole sul patibolo della mia libertà. Mi sembra che sia proprio lì che si giochi questa partita del coronavirus. Mi sembra che sia proprio questa la malattia, il veleno e il vaccino che stiamo scoprendo oggi, ognuno nel proprio laboratorio personale. L'allucinazione dell'io e la realtà delle cose. Siamo costretti dall'attesa a vedere e rivedere e poi rivedere ancora la fragilità della separazione, la stupidità della separazione. Se non altro, questa epidemia ha la forza di uno schiaffone a freddo ai nostri ego che volevano conquistare il mondo. Ognuno il proprio mondo. È un genitore d'altri tempi che ci rimette a sedere, che ci fa capire che a tavola ci sono anche gli altri, che la carne è per tutti. Che bisogna aspettare. Che siamo gli altri. Che senza gli altri non dureremmo neanche un secondo. Che ci fa capire il fraintendimento supremo che essere liberi non è fare quel cazzo che ci pare. Che quella non è libertà ma malattia, è fascismo, è un io, in ultima analisi, minuscolo che soffre, che esercita violenza, violenza radicale su quello che crede essere altro da sè.
Aspettiamo, aspetto, scoglionato, nel mio mondo sospeso, nel viaggio che ho rimandato a data da destinarsi, nei miei libri in pubblicazione che usciranno finita la guerra, nella mia voglia ricacciata dentro di un weekend chissà dove, nelle mie bevute. Aspetto. In questo mondo strano che sullo sfondo, nelle lucine ancora impercettibili che intravedo dall'altra parte del mare, dopo le tragedie che ci scorreranno accanto, appare più bello. Mi piace pensarlo diverso oltre le montagne, come le macchie degli uccelli che d'inverno disegnano geometrie meravigliose nei cieli di Roma, la bellezza di una sincronia di quel milione di esseri che da soli certe opere d'arte non potrebbero neanche immaginarle. Mi piace pensarci diversi dopo questa attesa, dopo questa tragedia, innamorati di nuovo di questo gigantesco "noi" in cui riscoprirci belli.

1 commento:

ISIDORO TAMASI ha detto...

E io che credevo… l’attesa fosse soltanto dolce: la dolce attesa delle partorienti. Stare in attesa del coronavirus? Ma è un incubo!
Hai ragione. Fare la fila all’Etecsa o in qualsiasi tienda per comprare prodotti al doppio, al triplo del prezzo praticato sul mercato mondiale ti deprime e ti costringe a volte a fare tante giravolte per evitarle. Ma, ma… hacer la cola di 10/15 minuti per comprare 5 kg. di gelato a 100 pesos, oppure altri prodotti a prezzo irrisorio è un piacere, una dolce attesa a cui non si può rinunciare.